L’Italia poteva gestire meglio la pandemia da Covid-19? A questa domanda prova a rispondere Patrick Trancu, esperto di gestione di crisi, insieme a 35 docenti e professionisti. Il risultato è una ampia e ricca riflessione multidisciplinare sulla fase 1 della pandemia raccolta nel libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” pubblicato da FrancoAngeli. Proprio per capire cosa abbiamo imparato da questa crisi ho intervistato Patrick Trancu.

Prima di entrare nel merito del libro, vorrei partire da una distinzione di base. Fin dall’inizio di questa pandemia, la gestione di crisi è stata spesso confusa dagli addetti ai lavori, oltre che dai mass media e cittadini, con la gestione dell’emergenza.  Quali sono le differenze tra crisi e emergenza?

Sia i media, nella loro continua spettacolarizzazione, che in ambito istituzionale vengono utilizzate queste due parole come fossero sinonimi ma c’è una differenza sia sostanziale che semantica. L’emergenza è un evento ben definito che abbiamo studiato, che conosciamo bene nei suoi contorni, per il quale abbiamo dei piani e sul quale sappiamo come intervenire. Siamo ad esempio ben preparati a gestire terremoti o alluvioni. La crisi inizia laddove il piano finisce. La crisi è quell’evento che ci proietta in un universo sconosciuto dove appare evidente il limite delle nostre conoscenze e dove saltano tutti i nostri punti di riferimento. Il Covid-19 è un buon esempio di questa definizione di crisi, nella fase iniziale sapevamo ben poco di questo virus e navigavamo pertanto un mare dinamico e ignoto. Non c’era una soluzione pronta. Siamo arrivati al limite delle nostre conoscenze e ci siamo dovuti spingere velocemente in avanti per poter cominciare ad orientarci.

La pandemia da Covid-19 è quindi una crisi?

Sì, il Covid-19 rappresenta quella che noi chiamiamo nel libro una crisi sistemica del ventunesimo secolo. Sono quelle crisi che oltre a proiettarci in questi territori sconosciuti in cui dobbiamo navigare al limite delle nostre conoscenze, si articolano in dimensioni diverse e su più fronti contemporaneamente o in concatenazione. Le crisi sistemiche richiedono quello che noi chiamiamo un approccio complesso – o riflessione strategica. E’ come se fossimo chiamati a giocare più partite a scacchi contemporaneamente su più piani di edifici diversi. La complessità è evidente.

Non è però la prima crisi sistemica che ci troviamo ad affrontare?

No, questa è la quarta/quinta crisi del XXI secolo. La prima è stata quella dovuta al crollo delle Torri Gemelle, seguita dalla crisi finanziaria del 2008, la crisi migratoria del 2014, questa da Covid e la crisi climatica, anche se quest’ultima trae origine nel secolo scorso ma è diventata visibile solo nel corso dell’ultimo decennio. Il problema sta nella fragilità della nostra società e dalla forte interconnessione che esiste. Questo fa sì che eventi apparentemente lontani ci raggiugano velocemente e ci coinvolgano direttamente dispiegando i loro effetti in archi di tempo lunghi. Pensiamo ad esempio all’attacco alle Torri Gemelle le cui ripercussioni sentiamo ancora oggi.

Tornando al libro, come è nato questo progetto?

L’idea per il libro è iniziata a fine febbraio 2020 quando ho ricevuto una telefonata di un cliente che aveva il primo caso di Covid nello stabilimento. Allora non sapevamo niente e non si avevano indicazioni chiare su come procedere. Ho iniziato a seguire l’evolversi della crisi e a farmi delle domande, quelle che poi ci siamo posti tutti. Perché l’Italia non aveva un piano pandemico? Perché era stata affidata la gestione della crisi alla Protezione Civile quando è uno strumento di risposta alle emergenze? Perché si è pensato solo in termini lineari e non in termini complessi? È possibile che lo Stato italiano non abbia un sistema di gestione di crisi?  Ecco da queste iniziali considerazioni ho iniziato a lavorare al progetto coinvolgendo via via i diversi autori man mano che mettevamo a fuoco i temi.

Come si articola il libro?

All’inizio presentiamo la lente, quella della gestione di crisi, attraverso la quale guardare e analizzare gli eventi. Poi ci soffermiamo su come l’Italia è organizzata per gestire crisi ed emergenze, una dimensione organizzativa sconosciuta alla maggioranza dei cittadini se non per le conoscenze relative alla Protezione civile. Poi via via affrontiamo il quadro normativo, il ruolo dell’Europa, l’arrivo del Covid-19, gli aspetti della comunicazione con una serie di approfondimenti diversi. Infine ci focalizziamo sulle criticità emerse e ci poniamo alcune domande per il futuro. La pandemia rappresenta una straordinaria case history che ci permette di trarre insegnamenti importanti. E come diceva Winston Churchill “mai sprecare una buona crisi”.

Il libro quindi non è un punto di arrivo?

Il libro è un punto di partenza non solo per spiegare quello che è successo ma soprattutto per capire cosa e dove dobbiamo cambiare. Mira a costruire consapevolezza presso i cittadini, il legislatore, la nostra classe politica e amministratori. Nel capitolo di apertura sosteniamo insieme a Patrick Lagadec che abbiamo strumenti legislativi e cassette degli attrezzi assolutamente inadeguate rispetto alla complessità della sfida delle crisi del XXI secolo. Il libro vuole costruire consapevolezza ma vuole soprattutto, con serietà, porre le basi per una riflessione su cosa deve cambiare per il futuro.

In questa situazione di totale incertezza la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale

In una situazione dove navighiamo in un universo sconosciuto caratterizzato da un ambiente infodemico è molto difficile dare certezze. Tuttavia è responsabilità delle istituzioni essere trasparenti e onesti con i cittadini. Da cittadini siamo abituati attraverso Google e gli smartphone ad avere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno quando vogliamo. Viviamo quindi di “certezze”. Per questo in un momento in cui non sappiamo cosa sta succedendo è necessario spiegare in maniera molto chiara come lo Stato si è organizzato per gestire le crisi, che cosa ci si può aspettare e che cosa verrà chiesto al cittadino di fare. Bisogna avere il coraggio di affermare che non abbiamo le conoscenze o che sappiamo poco su quello che sta accadendo. La trasparenza è infatti alla base del rapporto fiduciario tra cittadino e le istituzioni.

Dal lato comunicativo potevamo fare meglio?

Nel libro ne diamo ampio risalto. Potevamo concentrare le informazioni in un unico punto invece di creare più punti informativi, è stata data molta enfasi sulle prime regole (dal distanziamento alle mascherine) ma poi è mancato tutto il resto.  Una comunicazione che non è stata modulata a secondo degli eventi. Di fatto abbiamo assistito alla presa in ostaggio della comunicazione istituzionale e di crisi da parte della comunicazione politica. La comunicazione, invece di servire il bene comune, è servita a costruire la popolarità del Presidente del Consiglio. Questo è ampiamente dimostrato dai dati che riportiamo nel libro e anche dalle scelte fatte, come ad esempio quella di non comunicare attraverso i profili social di Palazzo Chigi ma attraverso gli account social personali del Presidente del Consiglio. In sintesi è stata portata avanti una strategia volta ad accrescerne la popolarità e il consenso personale. Sono state così violate tutte le regole della comunicazione di crisi e della comunicazione istituzionale privilegiando la strategia dell’annuncio fatta di faremo e valuteremo. Invece è sempre utile ricordare che in situazioni di crisi la comunicazione non è l’azione del comunicare, ma è comunicare l’azione, ovvero la comunicazione accompagna le azioni e orienta i comportamenti.

Oltre agli annunci, le comunicazioni non sono sempre state chiare

Una parte del libro è proprio dedicata alla comprensibilità della comunicazione. Per fare un esempio tre quarti degli italiani non sono stati in grado di comprendere l’autocertificazione che hanno dovuto firmare. L’indice di leggibilità delle comunicazioni da parte delle istituzioni è stato molto basso. Le comunicazioni sono state poco comprensibili, così come lo sono state anche le norme e i DPCM pubblicati. Da questa crisi è ancora più evidente come abbiamo la necessità di semplificare il linguaggio e di essere più chiari.

Un ruolo importante è stato anche quello degli scienziati

Gli scienziati sono diventati l’autorità competente in questa crisi e hanno scoperto le luci della ribalta. Non hanno saputo resistere al richiamo dei mass media, purtroppo però non hanno adeguato il loro linguaggio a quello dei cittadini. Sono saliti tutti in cattedra pensando di parlare tra pari quando invece c’era la necessità di spiegare il metodo scientifico e che la scienza non è portatrice di verità assolute.

E i mass media invece?

Questi hanno abdicato al loro ruolo di cerniera che permette il trasferimento della conoscenza scientifica dall’esperto a un cittadino interessato a voler conoscere e capire. Hanno invece preferito spettacolarizzare e polarizzare la tematica. Certo, tutto questo rientra nelle logiche dei media, però in una situazione come questa si poteva porre maggiore attenzione all’etica e al coinvolgimento di giornalisti e colleghi con un background scientifico. Dal punto di vista della comunicazione è stata una défaillance a 360°: non hanno comunicato bene le istituzioni, gli scienziati e sicuramente buona parte dei mass media non ha svolto il proprio ruolo in questa situazione drammatica che abbiamo vissuto.

La crisi da Covid-19 è stata usata come una scusa per nascondere tutte le altre crisi in corso che non stiamo affrontando?

Questa crisi si è innestata su un terreno fertile: crisi industriali irrisolte, dall’Alitalia all’Ilva di Taranto, di difficoltà economiche, di un mondo del lavoro fermo ecc…. Procrastinare i problemi porta ad una situazione dove le scelte si riducono. Il ventaglio delle opportunità e il numero di strade che puoi prendere sono sempre meno e la scelta è quasi obbligata. Questo logicamente ha spesso esiti negativi.

Possiamo fare un esempio concreto?

Pensiamo all’approvvigionamento dei vaccini, ogni Stato ha risposto in modo diverso alla stessa domanda. Come possiamo approvvigionarci? Negli Stati Uniti a partire dal marzo 2020 l’allora amministrazione Trump aveva individuato le società farmaceutiche a cui distribuire, sotto forma di venture capital, le risorse per lo sviluppo dei vaccini. Questo ha garantito agli USA accesso prioritario. Israele, che a differenza degli USA ha una popolazione di soli 7 milioni di persone da vaccinare, ha fatto un accordo con un singolo produttore offrendo una contropartita non solo economica. E’ importante ricordare che Israele è un paese che vive in uno stato perenne di crisi, ha quindi una cultura della gestione di crisi e i suoi governanti sono abituati a prendere decisioni difficili in situazioni complesse. La Gran Bretagna invece ha puntato su Astra Zeneca (al 50% britannica) e ha fatto la scelta coraggiosa di vaccinare prima tutti con una dose e poi in un secondo momento porsi il problema dei richiami. La Svizzera ha puntato sui vaccini di nuova generazione a mRNA in modo da tutelare i propri cittadini dalle varianti, viste le caratteristiche di questo virus. Arriviamo poi all’Europa che inizialmente si è mossa in ordine sparso, poi ha ricevuto mandato dagli Stati membri per l’approvvigionamento dei vaccini quando ormai era settembre inoltrato. In più l’Europa si è mossa seguendo una logica di procurement con l’obiettivo di spendere il meno possibile. Ha poi puntato anche su vaccini che non sono arrivati sul mercato come quello di Sanofi. Approcci diversi allo stesso problema. Quello che ha fatto la differenza è stata la tempestività delle decisioni, il coraggio e la capacità di assumersi le proprie responsabilità.

Cosa abbiamo imparato da questa crisi? C’è stata o ci sarà una riflessione a livello istituzionale?

Me lo auguro, ma i primi segnali non sono promettenti. Alcuni Stati, come Svizzera, Francia e Gran Bretagna ad esempio hanno pubblicato documenti di analisi sulla propria gestione di crisi ma non il nostro Paese.  Il problema di fondo è che noi non siamo né pronti né preparati e ci troviamo sempre ad improvvisare. Non ho nulla contro l’improvvisazione, anzi in alcuni casi è una risorsa, ma solo all’interno di un’organizzazione di risposta ben definita ed allenata.

Purtroppo però alcuni errori si stanno ripetendo anche ora

Certo perché quando si gestisce male una crisi è difficile raddrizzarla. È come se salissimo a bordo di un treno a levitazione magnetica lanciato a 450km/h, cercassimo di capire come funziona la cabina di pilotaggio per farlo rallentare o addirittura fargli cambiare binario. Questo è il motivo per cui dobbiamo essere preparati sin dall’inizio. Mi auguro che il libro possa aiutare il cittadino a capire che cosa è successo e possa aiutare la politica e il legislatore a fermarsi un attimo per riflettere. Questo è un altro dei problemi del nostro secolo: siamo di corsa, ci sono sempre delle priorità e cose da fare ma non abbiamo mai tempo per sederci e pensare. Ecco io credo che sia necessario invece fermarsi e pensare a questa pandemia per cercare di capire che cosa possiamo imparare e che cosa dobbiamo cambiare per il futuro.

Per info sul libro “Lo Stato in crisi. Pandemia, caos e domande per il futuro” di Patrick Trancu.

 

 

Foto di copertina Robert Metz su Unsplash.
Disclaimer: nell’articolo sono presenti link affiliati Amazon.